Nuovo disordine mondiale. Intervista a Giuliano Noci
Come trarre vantaggio dagli shock diventando più forti e adattabili di fronte alle avversità. Una bella chiacchierata con il prof. Giuliano Noci.
Foreign Affairs - una newsletter di notizie da tutto il mondo
a cura di Luca Salvemini
N. 118 - 1 giugno 2025
Per almeno trent’anni abbiamo credo nell’illusione che la Storia fosse finita, che il futuro potesse essere definitivamente associato alle parole pace, globalizzazione e progresso.
L’attualità ci racconta ben altro e oggi, tra guerre e disuguaglianze crescenti, siamo costretti a rispolverare lenti di ingrandimento e bussole per orientarci nel nuovo “Disordine” mondiale.
Per questo motivo ho avuto il piacere di conversare con il Professor Giuliano Noci, Prorettore del Polo territoriale cinese del Politecnico di Milano, dove ha fondato il primo campus internazionale dell’Ateneo a Xi’an (Cina) nonché esperto di innovazione e strategie globali (siede anche nel Comitato della Presidenza del Consiglio dei Ministri per la definizione della strategia nazionale sull’Intelligenza Artificiale).
A maggio 2025 ha scritto un saggio, “Disordine” (edito da Il Sole 24 Ore), che traccia una mappa per orientarsi nel disordine contemporaneo.
Di seguito la trascrizione della nostra conversazione.
Professor Noci, volevo iniziare la nostra conversazione dagli Stati Uniti.
E a tal proposito voglio citarle questo dato: oggi, negli Stati Uniti, dieci persone del ceto medio, impiegherebbero 724 mila anni a guadagnare quanto hanno guadagnato nell'ultimo anno le dieci persone più ricche d'America.
La distanza tra ceto medio ed oligarchie va sempre più aumentando, con il governo americano che tende a proteggere queste ultime.
Donald Trump è la risposta sbagliata alla domanda giusta di riduzione delle disuguaglianze o è stato eletto proprio perché intercetta il sentimento di una parte - la maggioranza - del popolo americano che è stanca di essere egemone?
Direi che Trump è il punto di sfogo, dove vanno a convergere una serie di pulsioni che si sono manifestate negli ultimi anni nella società americana.
Trump è la manifestazione di un disagio oggettivo. Purtroppo però, come lei diceva, ne è anche la risposta sbagliata e fornisce una ricetta completamente sbagliata. Le tensioni che ci sono nel popolo americano sono figlie di un turbo individualismo e un'assenza di welfare pubblico che ha creato una frattura enorme tra chi conosce e chi non conosce.
A conferma di questo, si noti come Trump viene eletto in un momento in cui c'è piena occupazione, in cui l'economia va a gonfie vele, quindi il tema di fondo è che c'è un pezzo di società, non piccolo, che non è più in grado di essere impiegato. E non è più in grado di essere impiegato perché non ha gli strumenti cognitivi per poter entrare nel mondo del lavoro. Quindi Trump è l'espressione di questo disagio, la risposta è completamente sbagliata, anzi per certi versi non farà altro che aumentare questo disagio, ma indubbiamente il tema c'è e c'è tutto.
Aggiungo infine che questa medesima frattura arriverà anche in Europa, seppur in ritardo perché il sistema dell'istruzione pubblica è più funzionante rispetto agli States.
Passando alla Cina faccio due esempi.
Il primo, ricollegandomi anche agli Stati Uniti, è Apple. In questi giorni leggiamo dell’acceso dibattito tra Apple e la Casa Bianca, con Cupertino che certifica l'impossibilità di scindere la sua catena di produzione dalla Cina. C'è un bellissimo libro che si chiama “Apple in China” che racconta come Apple abbia formato oltre 26 milioni di persone in Cina, creando legami esclusivi fortissimi con fornitori come Foxconn.
Dall'altro lato c’è BYD che, qualche giorno fa, ha presentato una linea di veicoli elettrici con una batteria in grado di ricaricarsi in 5 minuti e una durata di 400 chilometri. Volkswagen, ma anche altre aziende automobilistiche europee, hanno dichiarato di essere aperti “all’idea di cedere alle case automobilistiche cinesi linee di produzione ormai superflue nelle sue fabbriche tedesche”. Secondo i dirigenti di queste aziende, “invece di cercare di raggiungere la Catl o la Byd, gli europei farebbero bene a siglare delle alleanze con i cinesi e incentivare le aziende asiatiche ad aprire impianti in Europa”.
Professore, la Cina ha capito, prima degli altri, quale era il campo da gioco ovvero non più la qualità e la manifattura ma i dati e la competenza?
La Cina certamente, dal punto di vista culturale, ha uno sguardo lungo. Non essendo un paese democratico, ha la possibilità di pianificare a 15, 20, 30 anni. Una degli aspetti della Cina cui ho sempre guardato con grande attenzione è, da un lato, l'enorme limite di non essere una democrazia, con tutte le conseguenze che questo ha; dall'altro la loro lungimiranza di mettere a capo delle politiche pubbliche persone molto preparate e che hanno uno sguardo a lungo raggio.
Questo ha permesso alla Cina di intercettare prima di altri paesi, in primo luogo, il tema delle terre rare: mentre noi ci ostinavamo sul petrolio, loro andavano a caccia di terre rare. E poi sulle tecnologie di produzione di energia pulita, che li vede sostanzialmente in monopolio; infine le batterie e tutta la trasformazione digitale della società.
Oggi dobbiamo considerare come la Cina sia una società quasi nativamente digitale. Non si paga più con le banconote, si paga con lo smartphone.
La Cina ha quindi saputo intravedere talune traiettorie prima dell'Occidente.
Chiaro che non è tutto oro quel che luccica. La sfida di questo paese è come riuscirà a conciliare questo suo sguardo lungo con la capacità di costruire un'innovazione distribuita. Finché si rimane a livello infrastrutturale, ha dimostrato di avere una straordinaria capacità di innovazione. Si tratta di capire se questa capacità di innovazione, anche a livello di sistemi di telecomunicazione, 5G e quant'altro, possa poi tradursi anche in una capacità di innovazione per prodotti di uso più quotidiano e che richiedono una capacità diffusa di sviluppare innovazione. Non nelle grandi imprese dove si concentrano gli sforzi e l'attenzione del partito.
Sempre citando BYD, arriviamo in Europa.
E’ notizia di qualche giorno fa, ad aprile BYD ha sorpassato Tesla. Secondo la società di ricerca Jato Dymamics, l’azienda fondata da Elon Musk ha venduto 7.165 auto elettriche, mentre la Byd è arrivata a 7.231 veicoli.
Paolo Bricco, giornalista del Sole 24 Ore, scriveva qualche giorno fa che “la manifattura che dovrebbe ritornare al futuro dell'Europa, ma questo non accade a causa dell’eccesso di regolazione europea, fatta da burocrati che non sono mai stati in fabbrica”.
Si consideri come trent'anni fa il PIL dei paesi europei valeva il 24% del PIL globale, oggi conta il 16%.
Ecco, io la dico un po' dura. L'Unione Europea, può ancora considerarsi un esperimento fattibile o deve condannarsi al suo fallimento?
L'Europa non ha chance se non diventa adulta come costrutto politico.
Non ha chance perché i singoli stati nazione non hanno la massa critica in grado di competere con le potenze come Stati Uniti, Cina, India, Indonesia, Arabia Saudita.
Credo che il contesto attuale sia un contesto che pone l'Europa di fronte a un bivio, per certi versi, drammatico o straordinario, a seconda della direzione che prenderà. Comunque un bivio di natura cruciale nella sua storia, che è la capacità di trovare una sintesi tra sovranismo, identità culturale e necessità di raggiungere una massa critica.
Le spinte che vengono da oltre Atlantico e da Est sono spinte che o determinano una coesione che portano a generare un'architettura più coesa - magari di un'Europa non più a ventisette, ma un numero più ridotto di stati membri - oppure l'Europa, dal mio punto di vista, è destinata a frantumarsi e conseguentemente, nel pendolo della storia, a diventare probabilmente marginale.
In questo senso l'esercito comune europeo è centrale perché un soggetto politico diventa credibile nel momento in cui possiede una sua capacità di deterrenza.
E la deterrenza si fonda su diversi strumenti: lo strumento tecnologico, lo strumento finanziario, lo strumento di soft power e l'esercito è forse uno dei più importanti strumenti di deterrenza.
Lo conosce molto bene quello adagio latino, “Si vis pacem para bellum”.
Sull'intelligenza artificiale, nel suo libro emerge un’analisi lucida che si allontana dalla dicotomia del dibattito pubblico teso tra “l’AI sostituirà l’uomo” oppure “l’AI salverà il mondo”.
Ho trovato molto interessante il concetto di co-intelligenza e la metafora dell’automobile a guida autonoma, ovvero un futuro che ci sta dicendo come non sia la velocità o la perfezione dei calcoli a definire la qualità della vita, ma la capacità di relazionarsi, di sentire e di comprendere.
Marco Trombetti, founder di Translated, ha invitato ad uscire dall'egocentrismo dell'uomo e a riconoscere che probabilmente non siamo la specie più sviluppata a livello biologico e pertanto l'intelligenza artificiale potrebbe garantirci livelli di produttività ed efficienza che, da soli, non saremmo mai riusciti ad ottenere.
E’ la co-intelligenza la soluzione giusta al tema dell’intelligenza artificiale?
Sì, io credo che non ci siano alternative. L'intelligenza artificiale è un fattore straordinario di cambiamento, di cambiamento pervasivo di vita degli individui, di vita delle imprese e deve essere inteso non contro l'uomo ma a supporto dell'uomo.
Questo significa quindi pensare a forme di integrazione nativa tra intelligenza umana e intelligenza artificiale in cui la macchina è al servizio dell'uomo e faccio riferimento a questo con un aneddoto. I cinesi con il nuovo anno scolastico daranno ogni alunno un AI Companion, un agente che aiuterà il ragazzo a crescere dandogli dei suggerimenti in relazione a quelle che sono le sue carenze.
Allora questo è un esempio palese di come la macchina possa essere messa al servizio dell'uomo. Gli esempi sono infiniti. La possibilità di guadagnare tempo grazie all'intelligenza artificiale e quel tempo guadagnato dedicarlo all'attività maggiore di valore aggiunto.
Io credo che noi per certi versi come società occidentale e come società che mette al centro l'individuo, ma nel senso negativo del termine, siamo abituati a un gioco a somma zero. Quindi io contro qualcuno, la macchina contro di me. Non è così.
La chiave di volta del futuro lo troveremo se faremo convergere macchina e uomo evidentemente con l'uomo ben saldo al comando della macchina.
In questo senso la formazione è centrale perché l'intelligenza artificiale cambierà tutto. Mi chiedo se, a livello formativo, abbia ancora senso una conoscenza enciclopedica quando abbiamo la capacità di avere un serbatoio infinito di conoscenza a mia disposizione. E qual è l'obiettivo centrale dell'educazione del futuro? E’ educare la conoscenza enciclopedica o educare a porsi dei problemi giusti?
Il cambiamento nel sistema educativo, tornando a quello che dicevo all'inizio, è centrale. L'intelligenza artificiale è un fattore che accelererà quello squilibrio cognitivo e sociale a cui facevamo riferimento poc'anzi. E lo accelererà nella dimensione in cui il sistema educativo non sarà in grado di adeguarsi e di riconfigurarsi in relazione alle potenzialità dell'intelligenza artificiale.
Infine lo stato attuale e futuro democrazia.
Il colpo di Stato fallito in Corea del Sud, Israele che con il governo Netanyahu ha avuto diversi problemi con la magistratura e gli Stati Uniti con l’amministrazione Trump e la pesante ridiscussione di alcuni capisaldi dello stato di diritto.
Oggi assistiamo a fenomeni come le migrazioni, come le crisi finanziarie, la stessa intelligenza artificiale che non gestibili a livello locale o nazionale, e questo finisce per rendere spuntati e limitati gli strumenti in mano ai governi che risultano, in fin dei conti, sterili.
Nel suo libro lei cita la Teoria dell’anaciclosi di Machiavelli, la tesi secondo cui le forme di governo nascono, si consolidano, decadono e poi vengono sostituite.
Le chiedo oggi in che stato si trova la democrazia e se questa rimane la forma di governo migliore o la più adatta per gestire il presente?
Io direi di partire da un fatto ovvero che l'Occidente è in crisi.
Per Occidente in crisi intendo un concetto più di democrazia. Mi riferisco all’Occidente nel suo essere, nella sua religione monoteista, nel suo individualismo, nella sua degenerazione verso il turbocapitalismo, è una società, è una cultura, è un sistema di valori che rischia di essere appannato.
Perché dico questo? E’ come se si stesse creando uno iato tra l'individuo e la società, tra il bene individuale e il bene comune, e tutto va, scivolando verso il bene individuale se uno osserva.
Nella società in cui l'individuo, il bene individuale, tende a prevalere e a prevaricare sul bene sociale, sostanzialmente viene messo in crisi da una società digitale in cui la trasformazione digitale tende a valorizzare il concetto di connessione di rete.
C'è una forzante che spinge verso la costruzione di tessuti connettivi e una cultura dominante che spinge in taluni paesi, ad esempio negli Stati Uniti, ma anche in Italia - che è il paese dei campanili - verso una forma di spiccato individualismo.
Questo trova uno straordinario totem nella privacy. La privacy è un giano bifronte, perché è evidente che da un lato la privacy, come dire, è sacrosanta, non si può negarla. Ma dall'altro lato è una barriera fondamentale, perché l'impossibilità di condividere dati, ad esempio a scopi sanitari, non dico rispetto al passante per strada, ma rispetto all'autorità sanitaria rappresenta un vulnus alla costruzione di protocolli innovativi di cure e così via.
Ecco, le società asiatiche, spesso non democratiche, hanno invece l'individuo che si sublima con la società. Il confucianesimo e le teorie prevalenti in Asia tendono paradossalmente, in questo momento, pur non essendo democratiche, ad avere un qualche elemento di coerenza e consistenza rispetto alle forzanti in essere.
Quindi la democrazia in questo momento, che è certamente il migliore dei sistemi possibili, sta pian piano degenerando verso un eccesso di individualismo, che poi è quello che impedisce di fare infrastrutture. Io non posso fare infrastrutture perché c'è qualcuno che si appella a un interesse individuale e quindi, non so, crea contenziosi giudiziari per decenni, quando il bene comune avrebbe bisogno di tutt’altro.
E' una delicata dicotomia.
Io credo che la democrazia in questo momento abbia raggiunto una deriva pericolosa che riguarda la visione dell'individuo come elemento fondativo e fondante, per scelta versi univoco, non facente parte necessariamente di un tessuto sociale.
Questo, secondo me, è molto penalizzante oggi.
Come diceva Saramago “Il caos è solo ordine che attende di essere decifrato”. Il nostro compito, in un contesto sempre più complesso, dove i vecchi equilibri sembrano essersi dissolti e il disordine appare come una condizione permanente, rimane sempre quello di ritrovare una bussola, una lente di ingrandimento ed una mappa capaci di orientare scelte responsabili, evitando di subire passivamente le trasformazioni in atto.
Condivido pienamente le considerazioni sull’Europa e desidero complimentarmi con il Professore per aver espresso, con grande chiarezza, concetti che solitamente vengono taciuti perché non conformi al “politically correct”.
Sull’Europa, infatti, si ascoltano sempre le solite frasi retoriche, logore e scollegate dalla realtà, che spesso servono solo a mascherare interessi politici ed economici lontani dagli ideali che avevano ispirato l’integrazione europea ottant’anni fa.
Nessuno sembra voler affrontare il nodo cruciale: le regole pensate per un’Europa a sei – già complesse in un’Europa a dodici – sono diventate impraticabili in un’Unione a ventisette. Molti dei nuovi membri, pur avendo formalmente aderito ai valori fondanti dell’Unione, si sono poi allontanati da quegli stessi principi, anche dopo aver beneficiato ampiamente dei fondi europei. Paradossalmente, oggi sarebbe più difficile per loro essere ammessi, se dovessero presentare una nuova domanda di adesione.
Il danno ormai è fatto e tornare indietro sembra impossibile, anche a causa del gigantesco apparato burocratico e politico che si è consolidato tra Bruxelles e Strasburgo, alimentando evidenti conflitti di interesse.
Forse, l’unica via d’uscita potrebbe essere la nascita di un movimento popolare sovranazionale, promosso da personalità di grande autorevolezza ma esterne alla politica, capace di lanciare una campagna in tutti i paesi membri per abolire il principio dell’unanimità e introdurre sanzioni reali – fino all’espulsione – per gli Stati che violano sistematicamente i valori dell’Unione.
In assenza di un simile scossone, continuare a parlare di esercito europeo, deterrenza comune o altre soluzioni strategiche ha poco senso: rimarranno argomenti buoni solo per alimentare dispute interne, ma privi di reale prospettiva. E così, l’Europa continuerà a non avere un futuro credibile.