Il Creatore giusto
La storia di Adokou Pascal Zambé e un fenomeno sempre più inarrestabile: la decolonizzazione.
Foreign Affairs - una newsletter di notizie da tutto il mondo
a cura di Luca Salvemini
N. 113 - 11 maggio 2025

Quando ho conosciuto Zambé per la prima volta scherzava con il fuoco.
Non in modo figurato o metaforico, ma letterale. Dalla sua bocca eruttavano fiamme incandescenti. Nel mentre il suo sguardo si faceva sempre più intenso, il suo corpo sempre più veemente nei movimenti e nelle traiettorie. I suoi piedi scalzi si connettevano perfettamente con l’energia proveniente dalla madre terra, come direbbe lui.
Era uno spettacolo che trascendeva il visibile, disvelando ben presto i contorni di una storia e di un vissuto non troppo noto da questa parte - occidentale - del globo.
Per questo, dopo un anno, ritrovando Zambé come artista e performer nella mostra d’arte organizzata da Corals Gallery, curata da Greta Zuccali, a Milano - nel mese in cui l’UNESCO celebra la Giornata Mondiale della Diversità Culturale per il Dialogo e lo Sviluppo - ho voluto incontrarlo, parlarci e conoscere meglio la sua storia.
Adokou Zambé, classe ‘89, nato a Lomé, Togo, Africa occidentale. 8 milioni di abitanti di cui il 40% se la cava con meno di 1,25 dollari al giorno.
Una famiglia animista, cattolicesimo ibridato dalla religione vodoo come la stragrande maggioranza dei togolesi (secondo una stima del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d'America, il 37% dei togolesi sono animisti, mentre il secondo maggior gruppo religioso è costituito dai cristiani). Un fattore, quello religioso, che ricorre incessantemente nelle parole, nei pensieri e nell’arte di questo ragazzo che non smette un attimo di raccontarti e raccontarsi.
“Nelle mie opere cerco di esprimere la ricchezza che è dentro ognuno di noi. E’ importante non dover mai cambiare per qualcun altro ma accettarsi e accettare il mondo che viviamo. E’ il principio del “Creatore giusto” per cui tutto quello che vediamo rappresenta la potenza di Dio e per questo va accettato e valorizzato così com’è.
Da ciò deriva il mio concetto di “identità”. Significa poter essere liberi di migrare e di viaggiare, ma non dover cambiare sé stessi. Dobbiamo rimanere ciò che siamo, con la nostra personalità, imparare ad accettarci per quello che siamo e per la storia che rappresentiamo.”
Le parole, la storia e l’arte di Zambé segnano una frattura ed una discontinuità enorme con le precedenti generazioni di migranti africani, provenienti dalle più disparate - e disperate - parti del mondo, e costretti spesso ad accettare non solo salari e condizioni di lavoro sotto la soglia della umana decenza, ma soprattutto ad assorbire usi, costumi e identità totalmente opposte e contrastanti con le loro native.
Una assimilazione spesso accompagnata da pre-giudizi di supposta superiorità della cultura di destinazione, il più delle volte occidentale, con le derivazioni razziste e discriminatorie ampiamente conosciute negli ultimi decenni.
A tal proposito, voglio riportarvi un passaggio molto emblematico sul concetto di assimilazione, tratto dal saggio di Dario Fabbri “Geopolitica umana”:
Gli imperi hanno enorme bisogno di mantenere “verde” la società, incline ad intervenire con la forza sulle minacce esterne, per impulsività e vigore tipici dell’età e della disperazione. In tali contesti gli immigrati sono oggetto di assimilazione, fusi nella comunità di adozione. Attraverso l’obbligata adesione al modello culturale dominante, vivono la dolorosa spoliazione di ogni alterità.
A questi è imposto misconoscere la madrepatria, recidere le radici, percepire come propri gli avi dei connazionali acquisiti.
Nell’ultimo secolo in Cina milioni di Manciù sono stati assimilati all’etnia han. In Iran vivono circa venticinque milioni di azeri assimilati. In Turchia abitano cinque milioni di albanesi dimentichi delle loro origini. La stessa Russia ha assimilato tatari, beluci, tedeschi, ucraini, coasacchi, baschiri.
Gli Stati Uniti nemmeno a dirlo, tesi in un costante processo di assimilazione per rendere gli immigrati identici ai cittadini originari, estranei a ogni altro legame.
In Zambé ho percepito da subito, nettamente, l’orgoglio della propria storia. La consapevolezza dell’importanza di integrarsi in un paese e in un contesto diverso da quello nativo, non assimilandosi ma rivendicando la propria storia, le proprie origini, la propria religione.
E’ proprio la fede uno dei pilastri centrali di questa rivendicazione.
Mentre da questa parte del mondo il vodoo viene spesso associato alla stregoneria, alla magia nera, al lato oscuro, trattasi, invece, di una delle religioni più antiche del mondo, praticata da circa sessanta milioni di persone in tutto il mondo, con una sua dottrina morale e sociale, oltre che di una complessa cosmologia.
Recentemente è stata riconosciuta come religione ufficiale in Benin.
Il frainteso sulla religione vodoo - che la Chiesa Cattolica si prodigò per opprimere e soppiantare in tutta l’Africa - è solo una delle nostre tante incomprensioni che Zambé mi aiuta a disvelare parlando della sua Africa e dell’Africa che vuole rappresentare danzando, dipingendo, performando.
“Io sono nato in una famiglia vodoo tribale. Vedevo mia nonna ballare al ritmo dei tamburi nei riti dove il ritmo e il suono sono strumenti fondamentali per la comunicazione con il mondo spirituale, la celebrazione di eventi importanti e la costruzione di un senso di comunità.
Crescendo e ampliando le mie ricerche ho capito che c’era una spinta potentissima che dovevo tirar fuori.
Io voglio esprimere ciò che sento dentro e, anche tramite le performance, voglio far conoscere le vere tradizioni africane tribali e spiegare come queste non hanno nulla a che fare con il satanismo.
Oggi c’è questo questo conflitto tra le religioni tribali e quelle portate dai coloni. Ma sempre più africani stanno capendo che la nostra cultura è quella tribale. Ed è per questo che sempre più africani arrivano in Europa, ma vogliono poi tornare in Africa perché non si ritrovano e riconoscono in questo stile di vita”.
Nelle opere e nelle performance di Zambé colgo il racconto di una trasformazione sociale attraverso la quale una sempre più numerosa e consistente generazione di africani è protagonista di una decolonizzazione prima di tutto culturale, storica, fondata sulla riscoperta delle tradizioni ancestrali delle proprie famiglie, i balli, i costumi, gli idiomi linguistici originari antecedenti l’imposizione del francese o dell’inglese, le principali lingue coloniali.
Il loro obiettivo prioritario diventa raccontare la propria Africa, riappropriandosi di un’identità per troppo tempo ignorata, nascosta, geneticamente modificata, storpiata ad uso e consumo di tutto il resto del mondo, meno che degli africani stessi.
A livello politico il Togo ha sciolto definitivamente i suoi legami con la Francia (dopo le dominazioni tedesche ed inglesi) solo nel 1960, diventando una repubblica pienamente indipendente. Nel 1961 ha ratificato la sua Costituzione che non le ha comunque consentito di evitare, ancora oggi, l’oppressione di un regime dittatoriale.
Attualmente l'istituto statunitense Freedom House cataloga il Togo come paese "non libero".
“Tornerò sicuramente in Africa. Anche domani ci tornerei, ma purtroppo non è così semplice. La politica crea e inventa confini per rinchiuderci e poi maltrattarci; in Africa pochissima gente riesce a viaggiare, non c’è questa facilità nello spostarsi.
Ma un uomo è davvero libero solo se può viaggiare e muoversi; allora può scoprire nuove culture, conoscere nuove popolazioni e arricchirsi.
Perché il commercio dev’essere libero e noi no?”
Lui però è riuscito a fare il viaggio che forse gli ha cambiato la vita. Nel 2011, ha lasciato il Togo per una nuova avventura in Mali dove ha studiato ed approfondito le sue conoscenze, proseguendo il suo sviluppo artistico.
Si è laureato in Scienze Umane e ha iniziato gli studi presso il Conservatoire des Arts et Métiers Multimédia Balla Fasséké Kuoyaté (CAMM-BFK) a Bamako (Mali), dove ha conseguito una laurea triennale professionale in Arti Plastiche, che in seguito lo ha portato a proseguire gli studi con un Master in Arti Plastiche.
Durante i suoi studi al Conservatorio, visto il suo grande spirito creativo, gli sono state offerte cattedre in alcune scuole superiori d'arte della capitale maliana, dove ha tenuto lezioni e laboratori di pittura, danza, teatro e serigrafia, permettendogli di condividere la sua esperienza e le sue competenze nel campo artistico con i giovani, creando progetti e spettacoli contemporanei.
Grazie a queste esperienze, oggi è portavoce e responsabile della comunicazione per la FIFAC (Fédération Internationale des Formateurs en Art et Culture) in Togo, e fondatore di TACAR-MALI, una troupe artistica che porta l’arte e la cultura in dialogo attraverso il teatro, la danza e la musica.
“L'arte può essere uno strumento per salvare chi è intorno a noi.
Solo Dio può salvare tutti, noi no.
Il compito di noi artisti è riuscire ad alzare la voce, senza essere corrotti. E alzare la voce significa esporre i nostri lavori, le nostre canzoni, i nostri balli, pitture, il teatro e le poesie. Solo così possiamo risvegliare qualcuno e interrogarlo nella sua coscienza, nei suoi punti di vista, nel modo in cui vede le cose.
Oggi è impensabile accettare che il mondo vada così male. Le guerre ci stanno raccontando solo storie negative, piene di brutalità.
Cosa stanno imparando i bambini da tutto questo?
La cosa più grave è che abbiamo smesso di creare nuove storie. E l’arte ti consente di raccontare le storie, è il mezzo principale per farlo.”
Le luci della galleria d’arte che ospita la mostra le opere di Zambé stanno per spegnersi. Lui è ancora un fiume in piena, spiega ripetutamente il significato delle sue opere a chiunque si affacci, si avvicini.
La sua voglia di divulgare è tangibile.
Ad un certo punto si staglia su uno schermo anche l’immagine di sua madre, sacerdotessa, guida spirituale, curatrice dei mali e dei problemi che affliggono gli abitanti della sua città in Togo.
Tornando verso casa, rifletto su quanto la storia di Zambé, la sua arte, i suoi balli mi consentano di unire diversi puntini e comporre io, stavolta, un quadro di un fenomeno estremamente interessante e meritevole di studio: la decolonizzazione.
Le nuove generazioni africane, oggi, dopo aver ereditato Stati formalmente liberi ma strutturalmente segnati da logiche coloniali - lingue europee, modelli educativi esterni, religioni imposte, canoni estetici alieni - stanno disimparando questo sguardo coloniale interiorizzato, per rivedere il mondo da sé, a partire da sé.
Per citare la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie “è la fine della single story” ovvero l’epilogo di un racconto dell’Africa univoco, semplificato e stereotipato.
Dai testi di Aya Nakamura (cantante di origine maliana naturalizzata francese) in francese neo-populaire che mescola lingue africane, parole arabe e gitane fino al cantante forse più popolare del momento, Bad Bunny, portoricano, che nel suo ultimo album ha deciso di inserire, per ogni canzone, alcune slides informative che condividono frammenti di storia portoricana, dalle origini della bandiera, al suffragio femminile, dal movimento dell’indipendenza alle amate rane “coquí”, simbolo culturale di appartenenza al paese.
L’elenco potrebbe continuare a lungo, dalla moda di Imane Ayissi al cinema di Ousmane Sembène, padre del cinema africano, il quale ha rifiutato il francese per girare i suoi film in wolof, la lingua del popolo senegalese.
Intere parti del mondo, passo passo, opera d’arte dopo opera d’arte, canzone dopo canzone, riscoprono l’orgoglio delle proprie radici, la ricchezza della propria storia, ritrovano il coraggio e gli strumenti per rivendicarla. E’ un fenomeno che ha una portata potenzialmente storica da qualunque aspetto la si guardi. Sociale, demografico, geopolitico.
Ho fatto una ricerca per conoscere il significato africano della parola “Togo” e ho scoperto che, storicamente, con questa parola si indicava un insediamento del popolo Ewe sulle sponde del lago omonimo. In lingua ewe, to-go significa approssimativamente "andare all'acqua".
Ecco mi sembra perfetta questa immagine per rappresentare quanto raccontato da Zambé.
Il processo di decolonizzazione è un percorso in primis di riappropriazione di un immaginario che, per troppo tempo, è stato sottratto, esfiltrato, depredato. E’ un percorso intimo, di rivendicazione identitaria, famigliare che risale ai colori, ai tessuti, ai pigmenti, agli elementi naturali come l’acqua e il fuoco.
Cosa significa non cambiare, restare fedeli alle proprie radici in un mondo che spinge all’adattamento, all’assimilazione? Significa tornare alla materia prima, all’essenza, tornare all’acqua, l’elemento primario per eccellenza.
“Io credo che integrarsi significhi imparare le cose dagli altri, ma non dimenticare le tue cose.
Io ho visto tutte le cose che fanno gli europei, gli italiani, ma quando io devo esprimermi ritorno al mio immaginario, a quello che sono io, il mio villaggio, la mia famiglia.”